Sembra che la Corea del sud non sia meta di turismo occidentale. Seoul a parte, dove in ogni caso la conoscenza dell’inglese é scarsa, il resto della regione non é abituato a vedere turisti che non siano di origi e asiatica.

A Icheon, cittadina famosa per la produzione di ceramiche a 70 km dalla capitale, abbiamo avuto qualche difficoltá a far capire quello che volevamo vedere. Cosa risolta con un inglese maccheronico e tanta biona volontá.

Oggi a Makpo, città di grandi pescherecci a 300 km da Seoul, abbiamo dovuto spiegarci a gesti, indicare i piatti che volevamo mangiare ed usare il traduttore vocale per farci capire. Un pò faticoso ma divertente perché ti permette di entrare in sintonia con le persone che si sforzano di capirti e si entusiasmano quando gli dici che sei italiano.

Sono giá passati cinque giorni e mi sembra di non aver ancora visto nulla di Seoul, che in coreano si pronuncia Sol. Sto spuntando i posti visti e mi sembrano parecchi ma ancora pochi rispetto a quelli che vorrei vedere, le esperienze da fare. So giá che non riuscirò ad andare ad una delle famose spa e me ne dispiaccio.

In compenso ho visto i maggiori mercati, dove ho assaggiato cose mai mangiate prima. Sono salita, attraverso il parco e facendo gli innumerevoli gradini, alla N Tower.

Mi sono meravigliata per i bei giardini pensili del Seoul City Hall, e per l’incredibile orario, dalle 20.00 alle 05.00 dei grandi mall di Dongdaemun, nonché per la bellezza del design center e di tutte le statue sparse per la cittá. Ma c’è ancora tanto da vedere!

A darmi il benvenuto in Korea é stato un simpatico robot al ritiro bagagli che, con i suoi grandi occhioni stupiti, mi ha messo subito allegria

L’impatto, invece, con i coreani in carne ed ossa é stato un pò diverso. Li trovo un mix tra i giapponesi ed i cinesi. Non esitano a darti gomitate per farsi strada, non sono ossequiosi, ma sanno essere gentili e sorridenti. Sono sobriamente eleganti e mangiano volentieri per strada.

Il cibo da strada é veramente tanto, si fa fatica a scegliere. Non sono troppo amanti delle zuppe, come i loro vicini, preferiscono lecose in umido. Le salse di pomodoro piccanti la fanno da padrone.

Ttsokbokki – gnocchi di riso in salsa piccante


Quando si è alla partenza per un viaggio pensato/studiato per mesi si provano tante sensazioni. Un misto d soddisfazione, per aver passato del tempo a metterlo a punto ed essere, finalmente arrivati al dunque. Di timore, un paese nuovo per quanto evoluto, presenta sempre delle incognite soprattutto quando non ne si conosce la lingua. Di preoccupazione di non aver pensato a tutto, di aver lasciato qualcosa di fondamentale, fuori dalla valigia. Di euforia e gioia, per il pensiero di tutte le cose sconosciute che ti aspettano. Di impazienza di arrivare e riempirti gli occhi e lo stomaco di panorami e sapori nuovi.

Domani si riparte per una nuova meta, la novantesima, per l’esattezza e la cosa mi fa un certo effetto. La compagnia è ottima, due amiche che sanno ed amano viaggiare e con cui sto bene, la mia personale road map/ guida di viaggio, frutto di un lungo lavoro, è pronta. La lista delle cose da vedere e fare è lunghissima e sicuramente sarà disattesa già dal primo giorno, ma questo fa parte del bello del viaggio. Io sono pronta!

Corea del Sud, stiamo arrivando!


Già da alcuni anni ho, quasi del tutto, abbandonato i libri cartacei. Troppo scomodi da portare in viaggio, visto che quando posso parto col solo bagaglio a mano, e troppo ingombranti in casa, per passare al più comodo e leggero e-rider, in cui posso caricare tutti i libri che voglio, con poco peso e spazio. Però, da alcuni mesi mi sono appassionata anche agli audiolibri.

Questa forma di “lettura” esiste, si può dire, da quando è nata la radio. Anche se in Italia non hanno mai riscosso il successo dei paesi anglosassoni, la Rai li propone ancora oggi con il programma “ad alta voce” e sono, da sempre, molto importanti per le persone con disabilità visive.

Questa forma di “lettura” esiste, si può dire, da quando è nata la radio. Anche se in Italia non hanno mai riscosso il successo dei paesi anglosassoni, la Rai li propone ancora oggi con il programma “ad alta voce” e sono, da sempre, molto importanti per le persone con disabilità visive.

Da quando ho deciso di migliorare la mia qualità di vita e quindi di percorrere da sola, in auto, il lungo tragitto che mi separa da casa al lavoro, dai 35 ai 45 minuti per tratta, ho anche pensato di sfruttare questo tempo per farmi leggere i libri che, a causa dei vari impegni, non tempo di leggere.

E’ stata una piacevole scoperta. Le voci narranti sono, per la maggior parte dei casi, di ottimi professionisti che sanno creare con toni, pause e cambiamenti di ritmo le giuste atmosfere. La voce riesce a comunicare paura, amore, tristezza, vergogna. Ci si accorge di tante sfumature che, a volte, si perdono con la lettura fatta in prima persona. Ci si cala di più nel libro.

Può sembrare strano ma riesco a concentrarmi sia sulla guida che nell’ascolto del libro e quando mi sembra di aver perso qualcosa torno indietro e riascolto. Ho trovato in rete molti classici, che mi ero sempre ripromessa di leggere e che, finalmente, ascolterò senza fatica. Ho scoperto Enrico Carofiglio, che legge di persona personalmente i suoi scritti e mi porta nella sua Bari. Jo Nesbo, un pò esagerato nella descrizione degli omicidi dei suoi serial killer, Raymond Chandler, Isabel Allende… A breve mi farò trasportare nel 1500 da Q di Luther Blissett, lettura rimandata per troppo tempo.

Tra falsi storici e oblio della memoria pochi in questo 8 marzo ricordano come e perché questa data fu scelta per celebrare la “giornata delle donne”.
Dall’8 all’11 marzo 1917 ( dal 23 febbraio al 26 febbraio secondo il calendario giuliano), la Russia fu attraversata da una serie di tumulti e manifestazioni che avrebbero finito per abbattere il secolare dominio dei Romanov.
Ebbene l’8 marzo le prime a scendere in piazza per le strade di Pietrogrado (San Pietroburgo) furono le donne. Donne stanche, affamate, sole. I mariti in guerra, il duro inverno, la scarsità dei generi alimentari di base fecero affluire per le strade migliaia di russe che nel corso della giornata si unirono agli operai in sciopero e a tutti coloro che chiedevano pane per lo stomaco e carbone per le stufe. Uomini e donne stanchi di una guerra senza fine che aveva già falcidiato due milioni di russi, stanchi di una monarchia asserragliata nei palazzi del potere, stanchi di una società nella mani di una burocrazia corrotta e di una nobiltà reazionaria.
La manifestazione iniziata pacificamente degenerò nel pomeriggio. La capitale divenne un terreno di battaglia tra scioperanti e polizia. Il fronte interno era saltato. Il 10 marzo dopo due giorni di tumulti durissimi Nicola II inviò l’esercito a reprimere i rivoltosi. Ma i soldati della riserva fraternizzarono col popolo, passando alla causa dei ribelli. Era scoppiata la “Rivoluzione di Febbraio” e nessuno poteva più fermarla. Di lì a poco il dominio dei Romanov ebbe fine.

Clara Zetkin, della Lega Spartachista tedesca, che dal 1910 aveva raccolto l’idea del partito socialista americano di organizzare una giornata mondiale delle donne, proposte, durante i lavori della Seconda conferenza delle donne comuniste a Mosca (1921), di fissare la data all’8 marzo, in ricordo di quelle donne russe che per prime scesero in strada a San Pietroburgo.

In Italia la Giornata internazionale della donna fu tenuta per la prima volta soltanto nel 1922, per iniziativa del Partito comunista d’Italia, che la celebrò il 12 marzo, prima domenica successiva all’ormai fatidico 8 marzo. In quei giorni fu fondato il periodico quindicinale Compagna, che il 1º marzo 1925 riportò un articolo di Lenin, scomparso l’anno precedente, che ricordava l’otto marzo come Giornata internazionale della donna, la quale aveva avuto una parte attiva nelle lotte sociali e nel rovesciamento dello zarismo.

(fonti: web;wikipedia)

Vi riconoscete? io si!

Se non riuscite a stare mai fermi in un posto e sentite l’irrefrenabile desiderio di esplorare il mondo, di vedere luoghi nuovi e di conoscere nuove culture, potreste essere affetti dalla sindrome di wanderlust, anche conosciuta come la malattia del viaggiatore.
Secondo una ricerca pubblicata dalla rivista Evolution And Human Behaviour la voglia irrefrenabile di viaggiare è chiamata “sindrome di wanderlust”. In tedesco “wanderlust” significa “desiderio di vagabondare”. Non è una vera e propria patologia ma è un’ossessione, una mania verso i viaggi e la scoperta di nuovi posti e culture. Il gene del wanderluster è insito nel nostro Dna ed è il recettore della dopamina D4. Questo gene, responsabile della passione e dell’amore per tutto ciò che è esotico e sconosciuto è presente nel 20% della popolazione mondiale.

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Ci sono persone che non possono fare a meno di soddisfare il loro bisogno primordiale di spingersi oltre l’ignoto per esplorare posti sconosciuti, avventurarsi in nuove esperienze, conoscere stili di vita diversi dai propri attraverso l’incontro di persone provenienti da altri Paesi.

Queste persone non riescono a stare ferme. Dopo aver terminato un viaggio sono già pronte a programmarne uno nuovo. La vita sedentaria non fa per loro, li fa sentire “in gabbia”. Sono persone creative e intelligenti.

Quindi non la si può definire proprio una brutta malattia, ma solo un impulso, vecchio quanto l’uomo, che spinge alcune persone ad andare verso l’ignoto a superare le barriere culturali e geografiche per soddisfare la propria curiosità.